Il ministro ha perduto se stesso

«La voce della scuola democratica», organo dell’Associazione Difesa Scuola Nazionale, a. IV, n. 9-10, Roma, 1-16 maggio 1957, pp. 1-2.

IL MINISTRO HA PERDUTO SE STESSO

Nel 1947 il ministro Rossi era «assolutamente contrario al principio che lo Stato debba dare sovvenzioni alle scuole private»: nel 1957 trova inevitabili queste sovvenzioni. Reagisca l’opinione pubblica, sollecitando tutti i partiti laici e democratici ad una battaglia parlamentare perché le leggi Rossi siano sostanzialmente modificate.

Troppo lungo sarebbe qui discutere tutti e due i disegni di legge recentemente presentati dal ministro della Pubblica Istruzione, ed io mi fermerò solo sul secondo riguardante la scuola non statale, come su quello, del resto, che piú dolorosamente colpisce quanti, come me, sono convinti del fondamentale valore di una formazione del giovani veramente libera e seria, quale solo la scuola pubblica può, nella concreta situazione italiana, effettivamente garantire.

Non si tratta di prevenzioni settarie, di spirito anticlericale, perché tutti possono agevolmente constatare come le scuole private (che sono in Italia, in grande maggioranza, scuole istituite e gestite da ordini religiosi, e quando non sono tali, si raccomandano non per ragioni culturali, ma per la loro «indulgenza» e per una forma di preparazione degli alunni al solo scopo del piú facile conseguimento di un diploma o dei passaggi di classe in classe) siano caratterizzate appunto o da un tipo di formazione confessionale «chiusa», priva di discussione e di diversità di opinioni negli insegnamenti, o da una concezione unitaria degli studi contraria al compito culturale della scuola, o dalla somma di queste due qualità negative.

Tutti sanno bene che alle scuole private (a parte certe ubicazioni strategiche in località sfornite di istituti pubblici) affluiscono per lo piú i giovani che non riescono a «passare» nelle scuole statali e che, mentre infiniti sono i casi di ragazzi che lasciano la scuola pubblica troppo «rigorosa» per il piú comodo percorso di quella privata (dove spesso i 4 e i 5 degli insegnanti di Stato diventano miracolosamente 6 e 7), mai si verifica, per le stesse ragioni, il caso inverso. Cosí la moneta cattiva scaccia quella buona e le scuole confessionali si arricchiscono delle tasse dei meno «capaci» e meno «meritevoli» (ma sempre «capaci» economicamente, ché altrimenti non potrebbero pagare le tasse tanto piú alte rispetto a quelle delle scuole statali) ed escludono i loro allievi da quel vivo respiro nell’atmosfera libera della scuola pubblica (dove insegnano professori di ogni fede e di ogni tendenza ideologica) che solo garantisce poi le scelte autonome e mature dei futuri membri attivi di una società veramente democratica.

Ora si capisce che la Chiesa e il partito confessionale (non quei cattolici non «clericali» che inviano i loro figli alla scuola di Stato, consapevoli della sua sostanziale superiorità su quella privata), abbiano interesse ad aumentare continuamente la situazione di privilegio delle scuole private, ma non si capisce invece come possa desiderare di contribuire a tutto ciò l’on. Paolo Rossi, socialdemocratico e laico e, per di piú, attivo partecipante a quelle battaglie per la scuola nell’Assemblea Costituente, in cui chi scrive lo ricorda impegnato nell’unica linea d’azione che accomunò tutti i deputati dei partiti laici, senza nessuna eccezione.

Anzi, poiché il ministro, in una sua intervista, riportata sulla «Giustizia» del 18 aprile, si è riferito (rispondendo alle prime accuse di incostituzionalità del suo disegno di legge) all’interpretazione dell’articolo 33 della Costituzione sulla base degli Atti della Costituente, desidero qui rapidamente ricordare come la vivacissima discussione su quell’articolo ebbe la sua prima fase proprio nella contrapposizione di due emendamenti presentati l’uno dai deputati democristiani, l’altro dallo stesso on. Rossi e da me, e poi sostenuto, in sua assenza, da me a da altri deputati socialisti, socialdemocratici, azionisti, comunisti, liberali. Già nella discussione su quell’emendamento si profilò inequivoco il fondamentale dissenso circa i contributi dello Stato alle scuole private, e quando l’emendamento Rossi fu rigettato (a causa di molte assenze di deputati laici in quella seduta), nella seduta successiva del 29 aprile (cambiato in aula il rapporto di forze) prevalse un nuovo emendamento formulato dall’on Corbino d’accordo con molti altri deputati, fra i quali eravamo io e l’on. Preti, socialdemocratico, che lo sostenemmo proprio in quanto mirava ad escludere ogni contributo finanziario alle scuole private da parte dello Stato.

So bene che la formulazione di quel comma (che divenne poi parte dell’art. 33: «enti e privati hanno diritto di istituire istituti di educazione “senza oneri per lo Stato”») risultò non priva di possibili appigli per interessate ed equivoche interpretazioni (giocanti sul limite del verbo «istituire») e che una successiva dichiarazione, troppo conciliativa, dell’on. Corbino, può apparire suscettibile di aumentare il rischio di tali interpretazioni; ma, mentre occorre ricordare che, malgrado quella spiegazione dell’on. Corbino, l’emendamento non venne accettato dai democristiani, che ne rifiutarono lealmente la possibile interpretazione a loro favore, per bocca dell’on. Gronchi, tutte le altre dichiarazioni dei deputati di sinistra e di centrosinistra furono concordi nel dare a quell’emendamento il suo pieno valore di preclusione ad ogni qualsiasi forma diretta o indiretta di contributo statale alle scuole private. Tale fu la mia dichiarazione anche a nome dell’on. Preti, tale fu la dichiarazione di voto espressa ufficialmente a nome del gruppo, cui apparteneva ed appartiene l’on. Rossi, da Bianca Bianchi: «A nome del gruppo parlamentare del Partito socialista dei lavoratori italiani, dichiaro che per il nostro concetto di concedere da parte dello Stato piena libertà di insegnamento alle scuole private, noi aderiamo al primo comma, e nello stesso tempo all’emendamento in aggiunta al primo comma stesso (“senza oneri per lo Stato”), perché siano assolutamente contrari al principio che lo Stato debba dare sovvenzioni ed aiuti, economici e finanziari, alle scuole private».

Ed anche quando nella discussione dell’articolo successivo si manifestò di nuovo il tentativo dei democristiani di far affermare dalla Costituzione il dovere dello Stato di dar contributi alle scuole private nella forma indiretta di borse agli allievi di quelle scuole, di nuovo io, a nome del gruppo socialdemocratico (a cui appartenevo in qualità di socialista indipendente) dichiarai di accettare prima l’emendamento Lozza e poi quello Condorelli in proposito, «proprio secondo le linee che abbiamo seguito anche ieri, e cioè per escludere qualsiasi ombra di sospetto che in qualche modo si voglia imporre allo Stato il dovere di sovvenzionare, anche sotto forma di sussidi alle famiglie e agli scolari, le scuole private».

Non vedo perciò francamente come l’on. Paolo Rossi (che anche in un dibattito pubblico tenuto a Lucca nel 1951 e promosso dalla nostra associazione, sotto la presidenza di Augusto Mancini, approvò la mia interpretazione della volontà autentica dei costituenti laici, qui da me riferita) possa ora dimenticare i modi precisi in cui l’art. 33 e l’art. 34 vennero da noi formulati e fatti approvare (sempre contro la volontà dei democristiani), possa ora dimenticare quello che fu allora l’impegno solenne del suo partito, e possa invece accedere alle interpretazioni che di quegli articoli hanno elaborato poi (dopo la sconfitta subita alla Costituente) i democristiani che cercano di riguadagnare il terreno perduto sia nella pratica (arbitraria) dei ministri democristiani, sia appunto nel cavilloso sviluppo di quegli articoli in particolari applicazioni legislative. Tuttavia i ministri democristiani non giunsero a sancire legalmente il principio da noi escluso nella Costituzione; tanto piú amaramente colpisce il fatto che tale operazione, piena di conseguenze gravissime per la scuola di Stato e per la formazione scolastica dei giovani italiani, venga ora impostata e difesa da un ministro laico e socialdemocratico.

E se riprovevole era la pratica dei ministeri democristiani, che già realizzavano la loro interpretazione arbitraria degli articoli costituzionali versando di fatto sovvenzioni alle scuole private, assai peggiore appare la sanzione legislativa (anche se limitativa e controllata, come annuncia il ministro) di un principio che occorreva solo energicamente rifiutare stroncandone ogni arbitraria attuazione.

Di fronte a questo nuovo e decisivo passo avanti verso la liquidazione della scuola di Stato, già cosí povera di mezzi, cosí mortificata nei suoi insegnanti mal retribuiti, insidiata dagli arbitrî burocratici e dalla concorrenza dei suoi potenti nemici, ed ora ancor piú impoverita con la devoluzione di parte del suo insufficiente bilancio alle scuole private, gli uomini di cultura e di scuola, i politici e i cittadini interessati all’avvenire dei loro figli e del loro paese, debbono reagire con tutte le loro forze, richiamare al loro dovere tutti i partiti laici, sollecitarli ad una battaglia parlamentare energica e risoluta quale fu quella che essi sostennero all’Assemblea Costituente e alla quale il ministro attuale della Pubblica Istruzione partecipò con uno spirito assai diverso da quello che ora gli ha ispirato l’inaccettabile disegno di legge sulla scuola non statale.